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Il Board visto … dal Board: intervista a Giancarlo Della Luna, Board member (e non solo) della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Qualche settimana fa ho tenuto una lezione sul corporate fundraising ai partecipanti al percorso di alta formazione Talenti per il Fundraising, di Fondazione CRT, che seguiva di un paio di settimane un’altra dedicata, invece, al tema “Board e fundraising”.
Preparando la lezione sul corporate, cercavo una case history da portare nella forma di testimonianza (perché ci piace aggiornare ogni volta materiali, organizzazione delle presentazioni, case history: è un modo utile per allenare il pensiero e integrare prospettive diverse) e ho pensato che sarebbe stato interessante far emergere il punto di vista delle aziende, spesso guardate con un certo timore reverenziale da parte dei fundraiser. Ma volevo anche un punto di vista che, in qualche modo, avesse a che fare con gli aspetti connessi alla strategia di entrambe le parti – azienda e organizzazione nonprofit. E anche, tanto per non farci mancare nulla, un punto di vista che “smitizzasse” il pensiero (ahimè) molto diffuso su cause “facili” e cause” impossibili” – sono convinta, e la mia esperienza di questi anni rafforza la mia convinzione, che ci siano cause più complesse o meno “popolari”, ma che, non per questo, non abbiano i loro donatori…occorre “solo” (si fa per dire) fare un lavoro di segmentazione e analisi un po’ più articolato.
Ho così pensato al “caso perfetto”, quello che incrociava tutte le dinamiche che avevo in mente e che, a mio parere, avrebbe potuto offrire un punto di vista utile per chi sta imparando – e non solo.

Abbiamo conosciuto l’ing. Giancarlo Della Luna, imprenditore e fondatore di L.A. Sistemi, azienda specializzata nel trattamento delle acque con sede in Toscana, nel corso della nostra collaborazione con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, organizzazione a cui siamo molto legati, nella veste di donatore corporate.
La definizione, in realtà, non rende evidente l’approccio di una persona che incarna molti ruoli, tutti connessi al tema del dono e del coinvolgimento con una causa: l’ingaggio personale, la sensibilizzazione progressiva, l’interesse per lo sviluppo della causa, il coinvolgimento nella definizione dell’orizzonte strategico come Board member. Tutti passaggi che sono avvenuti nell’arco di qualche anno e che vedono oggi l’ing. Della Luna essere sia un donatore corporate che un componente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione, incarnando l’idea di “ambasciatore dei valori” che è associata- o dovrebbe esserlo – alla figura del Consigliere.

Condivido dunque qui un estratto della sua testimonianza al Master Talenti per il fundraising: credo che gli spunti emersi possano rendere l’idea di cosa significhi essere “a bordo” di una organizzazione.
Buona lettura!

Giancarlo, raccontaci qualcosa di te, chi sei e come e perché ti sei avvicinato all’Archivio.

Sono un imprenditore, la mia azienda è specializzata nella progettazione e produzione di sistemi di telecontrollo e telegestione destinati alla gestione di reti tecnologiche, impianti industriali, territorio ed ambiente.
Sono socio attivo dell’Associazione Transafrica Sviluppo onlus, una ONG che si occupa di fare educazione alla solidarietà e alla questione tuareg e di “portare acqua” in Mali e Niger, in particolare lavorando con le famiglie e le comunità tuareg.
Più di 30 anni fa, appassionato di socialità, ho trovato sulla mia strada Saverio Tutino, giornalista corrispondente de l’Unità in America latina e fondatore dell’Archivio dei Diari. Al suo rientro in Italia aveva compreso che la storia non deve essere fatta solo sui libri di storia, ma sulle “persone comuni” e ha fondato l’Archivio dei Diari a Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, paese pesantemente bombardato durante la II guerra mondiale e che nelle storie comuni ha trovato un modo per rinascere dopo quella ferita.
La mia fascinazione arriva da questo. Ho un padre che è stato in campo di concentramento a Mauthausen, e la sua è la storia di un uomo comune che però ha fatto cose eccezionali per quel momento storico.
Ritrovarmi quindi a Pieve, in un luogo di memorie dove queste vite comuni “eccezionali” davano vita ad un lenzuolo di vite intessute che la grande storia non considera e che sono quelle che mi sentivo raccontare in casa continuamente, mi ha spinto a frequentare l’Archivio, il Premio Pieve, ad allacciare relazioni con tutti coloro che si ritrovano annualmente al Premio, a settembre, e con cui condivido un innamoramento empatico dei principi che sono dietro il racconto delle storie come lavoro di memoria collettiva.

 

Tu non sei nato come donatore dell’Archivio, ma ci sei arrivato perché hai sentito vicino la causa. Qual è stata la tua prima volta con l’Archivio come donatore, da essere una persona che andava a Pieve a diventare un donatore?

Ho iniziato a coinvolgere le persone con cui collaboro nell’Associazione Transafrica, portandole a Pieve; ho coinvolto gli amici, facendo conoscere quel luogo a cui mi sentivo così vicino, e anche loro, in qualche modo, sentivano questa magia.
Poi ho conosciuto il meraviglioso gruppo di volontari e lo staff che lavorano con passione in Fondazione. Faccio l’imprenditore e so, però, che la passione non basta, nel lungo periodo. Mi sono quindi posto il problema di come facciano queste persone (la Fondazione, nda) ad andare avanti, come fanno a rendere concordi la passione con le necessità che ci sono anno dopo anno.
Quando si partecipa al Premio Pieve ci si accorge che è un evento molto emozionale e che le emozioni sono quelle che tengono insieme le persone – i partecipanti, ma anche lo staff e i volontari; sulle spese, invece, c’è sempre una sorta di pudore, pur essendo evidente l’impegno che richiede.
Così, in modo “brutale”, ho chiesto direttamente come funzionasse la “faccenda economica”, come facessero a rendere tutta l’attività sostenibile, visto che l’Archivio lavora non solo in occasione del Premio Pieve, ma lungo tutto l’anno e che i bilanci avevano, a mio avviso, necessità di una corroborazione abbastanza massiccia.
Ho pensato che bisognasse dare una mano.

 

Questo bisogno di “dare una mano” ha messo insieme l’interesse per la causa con la tua mentalità da imprenditore. Mi sembra un aspetto molto interessante perché sei tra i donatori corporate che non si pongono il tema di essere sollecitati su un progetto, ma ragionano lucidamente anche sul tema (dibattuto) dei costi strutturali; il taglio che caratterizza il tuo desiderio di donare risponde cioè alla domanda “come fa questa organizzazione a stare in piedi?” e all’affermazione “se voglio esserci, voglio farlo da un punti di vista strutturale”.
Cosa ti ha determinato a concentrarti sulla mission e non sui singoli progetti?

Ritorno alla mia ONG: per finanziarla organizzo eventi, sono contento quando riesco a trovare uno sponsor e a garantire la visibilità che la sponsorizzazione richiede, ma sono iniziative spot che sono utili, ma non stabiliscono una continuità. Quando elabori un bilancio le entrate spot non possono essere le uniche – vanno sicuramente bene per iniziative come il Premio Pieve, ma devono essere affiancate da azioni più stabili. Perché i giornali, ad esempio, chiedono gli abbonamenti? Perché è quello che ti consente di fare la programmazione – e senza programmazione non si va avanti – senza la quale un ente come l’Archivio non potrebbe andare avanti.
Nella mia ottica di imprenditore, verificando i costi sei in grado di pianificare su cosa concentrare gli sforzi, coinvolgere altri partners, provare a fare attività nuove – il Piccolo Museo del Diario ad esempio è un progetto nato dopo l’Archivio, diventando ad oggi una realtà quasi a sé come importanza. Come fare a garantirne la sostenibilità? Occorre un plafond con cui fare programmazione budgettaria; se non ce la fai intervieni con gli sponsor, ma una base “strutturale” ci deve essere.

 

In questo tuo percorso con l’Archivio, che trovo molto interessante perché è legato al porsi il problema di dare continuità alla mission dell’organizzazione, la sensibilizzazione progressiva ti ha fatto diventare da “vicino alla causa” a donatore, poi donatore corporate, e infine Board member. Qual è il tuo approccio rispetto al tuo coinvolgimento, in che modo interpreti il tuo ruolo nel Board?

La prima cosa che il CdA ha dovuto decidere nel 2020 è stato se realizzare o meno il Premio Pieve, a settembre, e in che modo, perché per la prima volta nella sua storia l’evento è stato in dubbio. Ci siamo assunti delle responsabilità, ma lo spirito dell’essere realmente parte dell’Archivio è questo: esserci, per la comunità.
Il mio primo obiettivo, da Consigliere, è sollecitare il Consiglio stesso su quanto i legami e le relazioni siano importanti per la continuità e lo sviluppo della missione. Il grande privilegio connesso all’essere nel CdA è “fare girare le cose per bene” e, per farlo, occorre avere i fondi, per cui il mio secondo impegno è di cercare i donatori in una logica peer to peer: non è un’impresa impossibile, io mi sono già mosso in questo senso così che, ad esempio, una manifestazione come il Premio sia in attivo, o che lo staff dedicato al fundraising sia adeguatamente formato e dimensionato, così da poter sviluppare a dovere la strategia di raccolta fondi.
Ultima cosa: siamo a più di 9mila memorie: adesso l’Archivio ha la necessità di allargarsi e cambiare sede: è un obiettivo ambizioso, grazie al quale lo stesso territorio può rinascere intorno all’indotto che l’Archivio è in grado di sviluppare. È necessario non aver paura di andare a cercare denaro perché questo Archivio è un valore nazionale che va sviluppato sempre più e questo significa, a mio avviso, affrontare le cose con mentalità imprenditoriale.

Abbiamo il dovere civico di non smettere di ricevere le memorie delle persone, e il mio compito come consigliere è “guardare” i progetti dello staff e cercare i soldi per realizzarli. L’Archivio è un bene della comunità, non dei privati, ed è questo lo spirito con cui vogliamo portare avanti il tema dello sviluppo.
Non c’è nessun vantaggio a stare nel CdA dal punto di vista economico, ma solo l’interesse a fare le cose per bene e dimostrare che si possono fare le cose con criterio.

 

La tua storia è quella che si legge nei manuali – il mondo del fundraising come dovrebbe essere, coinvolgimento progressivo, la vicinanza alla causa, il porsi il problema della sostenibilità della causa nel tempo, l’essere un Board member che ragiona in questi termini e che in prima persona va a cercare ulteriori risorse.
C’è un suggerimento che ti senti di dare ai fundraiser nella tua duplice veste di Board member e imprenditore, che quindi guarda al tema del fundraising da entrambi i lati?

Sul discorso che più mi appartiene, quello di sostenitore corporate continuativo, occorre pensare alle ragioni per cui un imprenditore si avvicina ad una causa. Perché è un imprenditore del territorio che in qualche modo desidera far sentire la sua presenza? Perché ha un’affinità con questi temi – nel mio caso il tema dell’umanità, della memoria, dello stare insieme?
Io credo che occorra cercare la “funzione filosofica” che avvicina alla causa, e il compito del fundraiser è capire quale sia la sensibilità dell’imprenditore “istituzionale”, quello che può essere continuativo.
Andare a cercare qual è questa connessione e quindi fare in modo che attraverso questa si possa trovare un filo conduttore comune, una strada da percorrere insieme: e questa è la cosa che forse può sembrare più difficile ma, allo stesso tempo, è l’essenza del fundraising e la sfida per chi se ne occupa all’interno di un’organizzazione.

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