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- / Far funzionare il Board

Il Board e il fundraising, comunque lo si chiami

Tra gli impegni professionali di questi mesi c’è un percorso di Board coaching con una organizzazione che si occupa di cooperazione internazionale, in particolare nel settore della salute dei bambini e delle donne.

 

[per chi, magari, non avesse idea di cosa sia un Board coaching: è un percorso di accompagnamento che tiene insieme apprendimento, pratica e sviluppo del fundraising, come strumento di sostenibilità, per quelle organizzazioni il cui Board necessiti di un lavoro ad hoc dal punto di vista delle competenze, del committment, del “disegno” di un modo differente di declinare il tema dello sviluppo dell’organizzazione.
È un lavoro molto interessante perché – ma questo accade sempre quando ci si occupa di fundraising – non ha soluzioni o modelli pre-individuabili a monte, va costruito e sviluppato in relazione alla situazione contingente e trova sempre modalità originali di sviluppo]

 

L’organizzazione ha una storia molto bella, nasce da una motivazione forte, ha una reputazione consolidata, un buon numero di volontari. E un fundraising che fa fatica a crescere: pur con una buona strutturazione, la questione dello sviluppo, in termini di numero donatori e fondi raccolti, è un tema su cui sono concentrati gli sforzi da un po’ di tempo.

La mia collaborazione, dunque, si sviluppa su due assi:
1) la strategia di fundraising – l’analisi, la revisione e l’upgrade delle campagne, lo sviluppo del database, la comunicazione e tutto quello che riguarda il fundraising dal punto di vista anche tecnico;
2) il lavoro diretto e pratico con il Board, perché possa essere il reale punto di snodo verso una strategia di sostenibilità più efficace per l’organizzazione.

 

Dopo aver “inquadrato” la situazione dal punto di vista dei “numeri” e dell’organizzazione, il passaggio al fundraising ha visto un certo timore da parte dei Consiglieri.

Pur convinti – tutti! Il che è già un ottimo punto di partenza – che il fundraising sia necessario, hanno manifestato una certa ritrosia nel chiedere, il timore (solito…) di creare imbarazzi tra amici e conoscenti, qualche perplessità sul riuscire a chiedere.

 

Il punto è stato esattamente questo: “il fundraising è fondamentale, ma io non riuscirei mai a farlo perché non so chiedere nulla, neppure per questa organizzazione alla quale tengo moltissimo”.

Le persone di cui parlo sono realmente volontari dell’organizzazione: non solo compongono il Consiglio ma, da sempre, prestano attività di volontariato professionale in maniera continuativa per far progredire i progetti. Sono realmente coinvolte e attive rispetto alla causa. Ci sono per lo staff.
Ma non se la sentono… di fare fundraising.

 

[faccio un inciso: negli ultimi 2 mesi, immagino per puro caso, mi è accaduta già 3 volte la stessa tipologia di situazione. Evidentemente il tema si pone, i Board se lo pongono e sono interessati a cercare le modalità per superare la stasi. E questo, a mio avviso, è un aspetto fondamentale, davvero un passo diverso]

 

Come facciamo sempre durante le consulenze, ho cominciato a “stringere” sul tema per capire dove poter incuneare una leva da utilizzare per generare quel cambio di passo che è l’obiettivo del percorso di lavoro.
Ad un certo punto, durante questo scambio di domande che stavo guidano, un consigliere – riferendosi al presidente – ha detto che aveva fatto un atto di “pirateria” (ha usato letteralmente questo termine) perché, a fronte della necessità di sostituire uno strumento essenziale che si era rotto e che avrebbe dovuto essere oggetto di una campagna di fundraising a settembre, il Presidente ci ha pensato, ripensato, preoccupato che il macchinario rotto determinasse l’impossibilità di erogare certe prestazioni e alla fine, una mattina di qualche giorno fa, ha alzato la cornetta per chiamare uno dei suoi contatti corporate …e gli ha chiesto 50mila euro. Così, senza colpo ferire. E li ha ottenuti quasi tutti.

Io l’ho guardato, ho guardato il Consigliere che ha riferito l’episodio, e non potevo crederci. Non tanto per la cifra – ero certamente contentissima per il caso fortunato che ha voluto che l’incontro tra un bisogno e un desiderio fosse esattamente quello giusto in quel momento – quanto perché l’approccio contraddiceva nei fatti quello che lo stesso presidente stava dicendo fino ad un minuto prima.
Gliel’ho fatto notare e gli ho chiesto come l’avrebbe chiamata, una cosa del genere, se non fundraising. E lui mi ha detto che sì, era come un atto di pirateria perché è entrato a gamba tesa con il suo contatto e, senza girarci neppure intorno, gli ha detto che il macchinario si era rotto, non riuscivano ad erogare prestazioni e che, per comprarne uno nuovo, ci sarebbero voluti alcuni mesi e nel frattempo le persone non avrebbero potuto fare quel tipo di esami e che, insomma, non era una bella situazione perché significava bloccare l’attività della struttura sanitaria. E la persona in questione gli aveva risposto che no, questo non doveva succedere e che ci avrebbe pensato lui, vista l’emergenza.

Mentre cercavo di mettere insieme gli elementi per far notare, nella maniera più piana e convincente possibile, che il fundraising era esattamente quella cosa lì, un altro consigliere – anche lui fino a poco prima mi stava dicendo che non avrebbe avuto problemi a scrivere o contattare amici e conoscenti, ex colleghi e chiunque altro fosse stato potenzialmente utile, ma senza neppure nominare l’espressione “ti chiedo di …” – mi ha detto che anche a lui era accaduta una cosa simile, ma che non l’aveva chiamata pirateria bensì “Provvidenza”.
Durante una serata con amici di famiglia aveva raccontato di un progetto che stava seguendo in prima persona per l’organizzazione e che avrebbe voluto svilupparlo coinvolgendo un numero maggiore di destinatari e che sperava di riuscire ad avere i fondi per farlo. Ascoltando, poi, uno dei presenti che parlava di budget aziendali e di risparmi dovuti ad una gestione efficiente degli stessi, gli aveva detto – testualmente – “ma visto che questi soldi li avete comunque in cassa perché non fate una cosa per qualcun altro e li donate per questo progetto?” e quello gli aveva detto che non ci aveva mai pensato e che sì, ne avrebbe parlato in azienda perché era una buona idea. E qualche giorno dopo aveva chiesto un incontro per approfondire il tutto e, nell’arco di pochissimi giorni, erano arrivati quei soldi.

La Provvidenza, dunque. O la pirateria.

Comunque la si chiami, è qualcosa con cui queste persone si sentono più a loro agio che con il termine “fundraising”.

 

Ci ho ragionato un bel po’, su questo aspetto. Come scrivevo più sopra, mi accade piuttosto di frequente di trovarmi di fronte a questo tipo di approccio e di dover trovare la chiave per poterlo trasformare in qualcosa di concreto e strutturato – che nella mia testa e nel mio lessico si chiama fundraising ma, evidentemente, può anche assumere nomi differenti.

 

Su questo punto, quindi, mi sento di elencare due aspetti/suggerimenti:

demistificare il termine fundraising a volte può essere la chiave di interpretazione per cambiare la percezione e, di conseguenza, l’approccio concreto (perché non tutti i consiglieri, ne sono consapevole, sono “pirati” o beneficiati dalla “provvidenza”).  a
Tutte le volte in cui ho adottato questo approccio, nei casi in cui mi sembrava necessario, si è poi rivelato quello giusto. Certo, ho dovuto imparare ad essere flessibile in quanto a termini e proprietà lessicali, ma è stato – ed è – sempre un esercizio utile anche per me. Perché imparare a guardare le cose da punti di vista diversi è quello che insegna ad includere (oltre ad essere enormemente stimolante);

approfondire, non accontentarsi della prima risposta o perplessità o dubbio, è la strada per comprendere quali siano la reale situazione dell’organizzazione in quel momento e, soprattutto, le potenzialità.
La capacità di analisi, la lettura non solo dei dati ma anche del contesto, l’ascolto attivo e l’individuazione delle domande giuste sono, a mio avviso, tra gli strumenti fondamentali del fundraiser – in questo caso declinati su un percorso di sviluppo del Board ma, in generale, validi nella relazione con i donatori e con chiunque sia coinvolto dal tema dello sviluppo.
Non essermi fermata alla prima domanda/risposta – “abbiamo timore a chiedere” – ha fatto sì che, in un clima informale e di confronto aperto, senza giudizio né remore nel condividere dubbi e perplessità (e questa “apertura” occorre generarla, perché a volte non arriva affatto da sé), emergessero le risposte “vere”.

In questo anno e qualche mese in cui tutti abbiamo dovuto confrontarci con l’impensabile, la mia impressione è che uno degli insegnamenti sia proprio quello dell’apertura verso l’altro, anche quando quello che si mostra è vulnerabilità.

Perché è da lì che si costruisce, laddove invece la perfezione (o, per usare un termine che non mi piace: la performance) non necessità di curiosità e approfondimenti.

Board in prima fila

Spunti, buone pratiche, riflessioni e strumenti utili per chiunque si occupi di fundraising e lavori insieme ai Board.

 

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