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Il reclutamento dei Consiglieri (perché sì, sarebbe auspicabile farlo) – 1

Alla tipica, tipicissima domanda “da chi è composto il Consiglio Direttivo?”  le risposte sono varie (e spesso eventuali).

Senza volerle citare tutte, una di quelle che capita di sentire è, prima ancora di una qualche forma di individuazione dei Consiglieri, la provenienza degli stessi.
Quello che spesso ci colpisce è una sorta di reticenza nel raccontare il modo in cui sono stati selezionati i membri del Consiglio Direttivo, come se occorresse giustificarsi a priori di qualcosa.

Non parleremo, qui, di quei Consigli che “funzionano” – ci sarà occasione – ma, al contrario, di quelle peculiarità che determinano la stasi dei Consigli stessi.

Tipizziamo alcuni dei casi con cui abbiamo avuto a che fare più spesso:

– i consiglieri “amici del Presidente”

È il caso tipico di quelle organizzazione che hanno un Presidente “storico”, che spesso porta avanti quasi in solitudine (anche per scelta) il lavoro dell’intero Board.
Di solito in queste organizzazioni il Presidente chiede ai propri contatti, tipicamente in fase di rinnovo del Consiglio, il favore (!) di candidarsi, perché diversamente non si troverebbe nessuno disposto ad assumere un impegno in seno al Consiglio.
Spesso gli amici si lasciano convincere, con l’idea che si tratti di mettere una firma su un verbale una volta ogni tanto. Perché ci tengono, sì, alla causa, ma sono sempre molto impegnati.
Così il Presidente continua a lavorare da solo. Con tutti i limiti che questo comporta per lo sviluppo dell’organizzazione.

– i consiglieri di nomina politica, di solito in organizzazioni il cui Statuto prevede la presenza di rappresentanti di Enti e/o Istituzioni all’interno dell’organo di vertice.
In questi casi, spesso, i consiglieri sono persone che hanno pochissima o nulla idea non solo della mission, ma anche, più in generale, di cosa sia e come funzioni un’organizzazione nonprofit – spesso si rifanno ad una generica idea di “gente che fa del bene” che, più o meno, risale a qualche decennio fa, diciamo.
Vale lo stesso discorso di cui al punto precedente: o si riesce a portarli a bordo sul serio oppure saranno ininfluenti (se va bene) ai fini dello sviluppo strategico dell’organizzazione.

i consiglieri “tecnici”, di solito bravissimi nel proprio settore, ma a volte con una scarsa propensione all’approccio relazionale sotteso dal fundraising. Soprattutto, spesso estranei al mondo nonprofit nell’accezione “contemporanea” del termine.

gli “interni”, che spesso tendono a riprodurre l’assetto gerarchico della struttura, a volte riducendosi da soli a mere comparse.

Potremmo andare avanti ancor per un po’, ma quello che ci interessa evidenziare è quello che manca in tutte le strategie – o pseudo-strategie – sopra elencate di individuazione dei Consiglieri.
Ovvero:

Qual è il criterio in base al quale reclutare un Consigliere?
Cosa fa dire che una persona è potenzialmente più adatta di un’altra a ricoprire un certo ruolo?

Nella nostra esperienza, i criteri da utilizzare per reclutare un (potenziale) buon Consigliere sono essenzialmente tre – in realtà ce ne sarebbe un quarto, legato all’empatia naturale, ma lo tratteremo a parte:

la competenza, intendendo quella specifica – laddove sia necessaria, ovvero quasi sempre – in connessione con la causa;
il legame, la familiarità con la mission dal punto di vista dell’interesse rispetto ad essa;
l’impegno, inteso come tempo dedicabile all’organizzazione in relazione alle necessità (da definire).

Approfondendo, in ordine.

La competenza, intesa come conoscenza ed expertise rispetto alla mission, o perlomeno al settore in cui si colloca l’organizzazione, è davvero necessaria, sempre? La riposta, a mio parere, è sì.

Con qualche specifica, però, che esemplifichiamo con un caso tratto dall’esperienza personale.

Durante l’estate del 2016 mi è stata segnalata l’apertura di una call per il reclutamento dell’International Advisory Panel di Rogare, un Centro di Ricerca che fa capo all’Hartsook Centre for Sustainable Philanthropy della Plyomout University, in Gran Bretagna.
Da sempre il mio lavoro si divide tra l’Italia e l’estero, e uno dei miei interessi – da sempre – è l’analisi comparata di quello che viene definito il comportamento pro-sociale, ovvero lo studio di quei fattori sociali, culturali ed economici che, nei vari Paesi, determinano l’attenzione al Terzo Settore e alle cause sociali (culturali, ambientali, ecc).

Quello che ho trovato interessante è stata la procedura di reclutamento, in Italia a tutt’oggi sconosciuta per quel che riguarda i Consigli Direttivi.
Ho dovuto inviare un curriculum vitae, scrivere una breve bio in cui illustravo i tratti principali del mio lavoro di consulente anche internazionale, motivare il perché ero interessata a candidarmi come Board Member.
Ho dovuto leggere un documento di 5 pagine in cui venivano descritti il ruolo e i compiti connessi e richiesti a ciascun membro, i criteri di eleggibilità, i doveri di ciascun membro relativi al coinvolgimento e alla promozione della mission, la frequenza e la modalità delle riunioni (è un Board internazionale i cui membri sono sparsi in tutto il mondo).
Ho compilato un form in cui ho descritto il tipo di lavoro che mi sarei impegnata a fare come Board member, articolato su un arco temporale di 3 anni (tanto dura il mandato), specificando il contributo e il modo in cui, all’interno del Panel, avrei potuto “fare la differenza”.

Candidarmi ha significato prendere un impegno in maniera consapevole, leggere – prima – quello che avrei dovuto aspettarmi e che sarei stata chiamata a dare, studiare il modo in cui avrei potuto produrre un impatto sulla mission del Centro.

Nel mio lavoro fuori dall’Italia mi accade spesso di leggere cose di questo genere, negli application packs per il ruolo di Board Member. E lo trovo una cosa seria e tutto sommato naturale, che consente una valutazione a priori e anche una ex post, rispetto all’impegno (che è cosa ben diversa da una valutazione personale, ed è fonte di stimoli e di crescita professionale).

E in Italia?
Ad oggi – ma sarei ben lieta di essere smentita – non ho ancora visto un approccio di questo tipo esplicitato in maniera strutturata.

Ci sono tanti, tantissimi membri di Consigli Direttivi che lavorano con passione, profondono energie e impegno, sono orientati allo sviluppo della mission, sono sinceramente e profondamente interessati ai temi del Terzo Settore, alle opportunità di sviluppo, alla complessità e alle forme ibride verso cui esso oggi può essere orientato.

Ce ne sono altrettanti, tuttavia, che occupano un posto in Consiglio con una vaga, vaghissima idea del settore nonprofit, delle sue peculiarità, del perché profit e non profit sono due realtà differenti che si parlano (devono parlarsi), ma hanno un’impostazione a monte differente, delle motivazioni che spingono una persona a lavorare in un settore piuttosto che in un altro (senza che ci sia una gerarchia tra i due, rispondo “solo” a logiche naturalmente differenti).
E questa mancanza di competenza, nella maggior parte dei casi, si riflette sui risultati, spesso ordinari (nel senso negativo del termine), a volte scarsi.

Come risolvere la questione?
Un’idea potrebbe essere quella di seguire l’esempio citato sopra. Con gradi differenti di complessità, avere un’idea chiara delle competenze che i Consiglieri devono avere vuol dire sedersi a tavolino e iniziare a stilare un elenco delle stesse a partire da quali compiti saranno chiamati a svolgere i futuri consiglieri – la definizione del ruolo, ancora lei.

L’organizzazione si occupa di ricerca scientifica su una certa patologia? Forse un medico (competenza tecnica), un paziente o un famigliare (esperienza “pratica”), possono essere idealtipi da prendere in considerazione per lo sviluppo dei progetti.

Oppure: l’organizzazione ha bisogno di intraprendere una strategia di sviluppo. Forse qualcuno che abbia già un’esperienza in tal senso e sia interessato alla mission, o qualcuno con competenze ed esperienza sul fundraising o sul project management, potrebbero essere utili.

Di esempi se ne potrebbero fare parecchi.
Il punto di partenza essenziale, però, dev’essere sempre lo stesso: rispondere alla domanda “qual è l’idea di futuro dell’organizzazione?” e “a chi è più opportuno affidare il percorso verso il futuro?”. Perché, inevitabilmente, rispondere a queste domande consente di identificare quali saranno le caratteristiche delle persone più adatte.

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