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Quando il Board è poco “ambizioso”

In relazione al tema della crescita delle organizzazioni, quello di cui più spesso si parla tra gli “addetti ai lavori” ha ad oggetto i donatori e riguarda la propensione al dono, le motivazioni, le modalità con cui rispondono – o non rispondono – agli appelli di fundraising.

A volte l’impressione è di una scarsa comprensione, da parte dei donatori, dell’importanza di sostenere attivamente certe cause, iniziative o progetti impegnandosi convintamente a supportarle (sviluppo = non solo fondi ma anche relazioni, competenze, comunità) e la riflessione riguarda il come chi si occupa di sviluppo possa rendere al meglio tale impegno cruciale. Naturalmente è una generalizzazione, ogni caso è a sé.

Quello che ci accade di notare – non troppo spesso, per fortuna, ma accade – è una certa ritrosia a “puntare in alto” in termini di sviluppo da parte di chi dovrebbe governare tali dinamiche, ovvero i Board.

Cosa accade, quindi, quando non sono i donatori “il problema”, ma è la governance ad essere poco “ambiziosa”?

Ne parliamo in questo articolo che, come sempre, trae spunto dall’esperienza professionale quotidiana e offre qualche spunto concreto per superare l’impasse.

Buona lettura!

Quando si parla di sviluppo – e utilizziamo volutamente questo termine “ombrello” che include, oltre al fundraising, anche tutte le strategie legate al posizionamento, il coinvolgimento, lo sviluppo territoriale e delle comunità – l’ambizione al cambiamento non è un “peccato”.

A volte accade di leggere appelli di fundraising che, a fronte di dichiarazioni altisonanti legate alla causa e al cambiamento positivo che la stessa è in grado di generare, chiedono solo “piccole donazioni” per realizzarlo.

È il classico trade-off caratterizzato da una scarsa logica sequenziale: per cambiare occorre “pensare in grande” e attivarsi di conseguenza per fare in modo che accada. Non si possono fare grandi cose, in altre parole, se si fa il minimo indispensabile.

È per questo che gli appelli ai donatori dovrebbero essere “ambiziosi”, riflettere il modo in cui l’organizzazione vuole cambiare in meglio il mondo (ovvero la realtà di cui si occupa) e incoraggiarli ad essere parte di qualcosa di più grande dei singoli.

 

Dalla nostra prospettiva, spesso non sono i donatori ad essere poco ambiziosi o partecipativi, ma le organizzazioni – un po’ come quando si dice che i donatori italiani non sono pronti a sentir parlare di lasciti e, nella pratica, sono invece le organizzazioni ad avere timore di farlo (suggerimento pratico: toccate sempre con mano le situazioni prima di rifugiarvi nel “si dice che …”).

 

Prendiamo, ad esempio, il caso di una organizzazione che ha obiettivi di sviluppo ambiziosi in termini di progetti da realizzare al servizio di una certa comunità territoriale, aspettative in termini di fundraising decisamente consistenti sia con riferimento ai grandi donatori che alle aziende, con un patrimonio relazionale della governance di tutto rispetto e un posizionamento – derivante in massima parte dalla reputazione dei Consiglieri – solido.

Immaginiamo che la stessa organizzazione, proprio per queste caratteristiche positive, si dia traguardi ambiziosi e sia consapevole che, alla luce della complessità che richiede il loro raggiungimento, occorra investire nella struttura organizzativa inserendo ulteriori unità di staff. Aggiungiamo anche che sempre la stessa organizzazione, ovvero la sua governance, sia consapevole che occorrano professionalità senior per strutturare prima e sviluppare poi tali obiettivi e che occorra partire dal vertice, ovvero dall’inserimento di un direttore che sia in grado di avviare il processo e, con un approccio step-by-step, possa consolidare e sviluppare la struttura interna di staff, la strategia e il programma operativo di fundraising e comunicazione, le necessarie relazioni con la comunità di riferimento in un’ottica peer-to-peer che consenta di rafforzare ulteriormente il posizionamento dell’organizzazione.

La governance ha dunque un elevato grado di consapevolezza rispetto alla necessità di un “top manager”, ovvero di un direttore, per avviare il processo.

Viene aperta una posizione che viene veicolata alla rete relazionale di prossimità, così da selezionare i possibili candidati a partire da una conoscenza personale e, con colloqui ad hoc, una verifica delle competenze professionali necessarie.

Identificato il candidato, viene proposto un contratto che incontra le esigenze di entrambe le parti ma, al momento della firma, emerge un problema: no, non è di natura economica, come ci si aspetterebbe, ma è legato alla qualifica.

Il problema, in altre parole, è il “titolo professionale” di Direttore che, a dire della governance, è eccessivo per l’organizzazione, nata solo da qualche anno e che teme di fare il passo più lungo della gamba nell’inserire una figura dirigenziale così definita. Il ragionamento, quindi, diventa: abbiamo bisogno di un direttore per realizzare quello che abbiamo in mente, abbiamo selezionato il professionista che incontra le nostre esigenze dal punto di vista delle competenze, dell’approccio al ruolo e anche economico. Però non ce la sentiamo di chiamarlo direttore.

Supponiamo anche che emergano proposte alternative da parte della stessa governance: potremmo chiamarlo responsabile operativo, oppure responsabile fundraising oppure niente, l’importante è che lavori come se fosse il direttore.

Il problema, adesso, è che questa persona, a cui è stato proposto di fare il direttore sulla base di obiettivi specifici definiti in fase di selezione, spiega che non sarà possibile raggiungere tali obiettivi – principalmente legati a partnership strategiche – senza potersi presentare con un ruolo che non è solo formale, ma anche sostanziale. Con una capacità negoziale, in altre parole, che derivi dal committment forte da parte del Board e da una posizione organizzativa di vertice riconoscibile.

Il Board, a questo punto, concorda, però sostiene che la comunità di riferimento non comprenderebbe l’assunzione di un direttore e che questo metterebbe in ombra i Consiglieri, che si vedrebbero in qualche modo indeboliti nel loro ruolo.

La persona selezionata, a questo punto, fa marcia indietro e rifiuta l’assunzione, rinunciando all’incarico proposto e lasciando il Board nell’imbarazzo e al suo destino (quello del “noi sappiamo come ci si muove”, “abbiamo sempre fatto così”, ecc.).

 

Lasciamo a chi legge immaginare se sia una storia vera o frutto di fantasia.

 

Quello che a noi preme è trarre alcune considerazioni e offrire qualche spunto:

  • il ruolo del Board è diverso da quello del management. Il primo ha un ruolo politico-strategico e, per così dire, detta la linea; il secondo ha un ruolo legato, appunto, alla gestione. Con gradi diversi a seconda dell’organizzazione e dei rapporti di forza interni, ma, in nessun caso, un Board dovrebbe essere “messo in ombra” da parte del direttore o del Segretario Generale o di figure apicali. Quando accade è la spia di un problema di riconoscimento reciproco e di “struttura” della governance, in termini di interpretazione del ruolo e, come tutti i problemi, su può lavorare per risolverlo – nel libro che abbiamo scritto su “governance e sviluppo” forniamo suggerimenti su come fare, in particolare (ma non solo) al capitolo 2;
  • la “forma” che può assumere un Board in termini di modalità di lavoro è diversa a seconda dell’organizzazione, del momento storico che la stessa vive in relazione al suo sviluppo, dei consiglieri che lo compongono e del loro approccio. In alcune situazioni accade che il Direttore sia un “comandante in seconda”, soprattutto quando la governance inizia il mandato ed è magari composta da membri di prima nomina. Nell’evoluzione, tuttavia, i ruoli si riequilibrano, anche quando il Direttore affianca attivamente il Board. Anche in questo caso, quando ciò non accade occorre lavorare per comprenderne le cause e riequilibrare le relazioni tra gli organi;
  • il Board è, nella stragrande maggioranza dei casi, composto da membri volontari. Ciò non significa che l’impegno sia minore né, soprattutto se si ha a cuore lo sviluppo dell’organizzazione, la professionalità sia un optional. Pretendere professionalità dallo staff è sacrosanto, ma lo stesso vale per il Board. Un Consiglio Direttivo che agisca come nel caso raccontato sopra depotenzia l’organizzazione determinando un corto circuito tra ambizioni dichiarate e orientamento sostanziale nel perseguirle. Vale a dire: punto in alto, ma con il minimo cambiamento di marcia possibile. Il risultato non potrà che essere commisurato allo sforzo, come sempre accade, quindi sarà un risultato di minima. La cui responsabilità, sempre riprendendo l’esempio, ricadrebbe poi sul direttore-che-non-si-può-chiamare-tale.

Ciò che premia sempre è lavorare in maniera coerente: non occorre fare il passo più lungo della gamba e non è neanche consigliato pensarci. Quello che serve, però, è un approccio coerente tra dichiarazioni e aspettative, tra ambizioni di sviluppo dell’organizzazione e strutturazione interna, tra il perseguimento della mission e le modalità per farlo.

La governance – la sua strutturazione, l’assunzione del ruolo, l’individuazione delle persone adatte per il caso specifico (non in generale, quindi, perché non si tratta di dare giudizi sulle persone ma di valutare chi sia più adatto di altri in relazione alla situazione) – è tra gli assi cruciali dello sviluppo e non va sottovalutato l’impatto che ha sullo stesso.

 

Pensarci prima, disegnare una governance coerente, vuol dire assicurare il futuro di una organizzazione e della sua mission.

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