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#stranigiorni – riflessioni al termine della quarantena

Questo è un post diverso da quelli che pubblichiamo di solito, per spirito e contenuto.
È un mix di riflessioni che tengono insieme la parte professionale e quella personale. Una sorta di punto della situazione spontaneo, dopo settimane strane e stranianti, in cui i pensieri, quando mi sono seduta a scrivere, sono fluiti spontaneamente.

Sono state settimane complesse. Per fortuna non difficili dal punto di vista personale – non ho avuto problemi di salute, sono riuscita a mantenere inalterati i ritmi di lavoro e ho continuato a seguire i progetti a cui stavo lavorando senza alcuna interruzione (evviva la tecnologia!). E ho imparato molto: non solo tool digitali ma, soprattutto, modalità differenti per guardare le cose da un’altra prospettiva.

Non è poco; anzi, è davvero tantissimo.

Questi quasi 2 mesi di chiusura, di silenzio e spazi liberi, sono stati un’opportunità per approfondire, studiare, confrontarmi e scoprire cose.
Mi sono iscritta ad un corso online sulla musica classica – più o meno 30 anni dopo aver lasciato il Conservatorio; ho frequentato un buon numero di webinar a tema digital – non solo strumenti ma, soprattutto, cultura della trasformazione digitale; ho partecipato a webinar in cui ero tra i relatori e anche all’Open Day del Master in Fundraising in qualità di ex allieva; ho letto, non solo di fundraising e filantropia, e ho ascoltato.
Anzi, direi che ho cercato il più possibile di ascoltare. Per capire meglio, provare a guardare le cose in modo più ampio, trovare una dimensione “a distanza” che consentisse un’esperienza di senso.

E vorrei condividere qui alcune delle cose che ho imparato, sempre naturalmente sui temi di cui tratta il blog – dichiarando sin d’ora che mi piacerebbe molto confrontarmi con il pensiero di chi leggerà, per cui ogni commento sarà più che gradito.

La fiducia è il motore. Di tutto.

La Presidente positiva al Coronavirus per la quale “l’unico modo di fare bene il mio lavoro è l’incontro con gli altri” che ha trovato un modo meraviglioso di raccontare la quarantena con video settimanali da casa, davanti ad un quaderno di appunti perché “quando si parla bisogna essere precisi”, ma con una informalità fatta di rumori dal giardino, approccio rilassato e il racconto di una situazione difficile, davvero difficile, per l’organizzazione, è la prima immagine che mi viene in mente. Senza paraventi di ufficialità e a volte neppure le parole giuste, quelle misurate; perché un’emergenza è un’emergenza e i bambini della comunità avevano bisogno – di fare lezione a distanza, di rassicurazioni, di presenze e di conforto.

Le richieste di aiuto – come questa – generano risposte, spesso molto veloci.
Perché un’emergenza è un’emergenza, e occorre muoversi rapidamente.
Anche quando non ci si conosce prima e ci si fa bastare una telefonata e l’indicazione di un sito web che attesti la veridicità di quello che si sta raccontando, di un’organizzazione in sofferenza. Anche quando chi interviene parte dal Veneto e arriva in Lombardia – due tra i poli di contagio più in sofferenza, in tutto questo periodo.

Perché è inutile girarci intorno: se ho bisogno di aiuto devo chiederlo, con chiarezza, senza mezzi termini né parole edulcorate.
Un bisogno è un bisogno, non altro.

Qual è il senso?

L’apertura autentica all’altro, dal mio punto di vista. Quella che ci espone e che, allo stesso tempo, ci racconta meglio di giri di parole formalmente ineccepibili, ma che raffreddano il messaggio, aggiungono livelli di intermediazione laddove dovrebbe parlare solo l’emozione (che la donazione sia soprattutto di pancia lo sappiamo tutti, no?).

In queste settimane ho visto consiglieri e presidenti all’opera, chi con attività pratiche, chi dietro la propria scrivania, chi tessendo reti per far circolare informazioni e aiuti. Tutti impegnati a far fronte a qualcosa di inatteso e sconosciuto, a tenere insieme l’incertezza della situazione contingente con la necessità di dare risposte a bisogni concreti e urgenti.

Ed è, questo, un punto che trovo particolarmente interessante ed “educativo”: la pretesa di governare in modo razionale e rigido l’incertezza – soprattutto quella generale – è una chimera, genera risposte affrettate, lavora su un orizzonte di brevissimo periodo, costringe dentro un perimetro qualcosa che ancora non si conosce e che, proprio per questo, non può essere compressa.

La soluzione, forse, è accogliere l’incertezza e fare la propria parte al meglio possibile.

Continua a tornarmi in mente una frase che ho sempre amato molto, del poeta inglese Alexander Pope, che dice: “act well your part, there all the honour lies”. “Fai bene la tua parte, lì sta tutto l’onore”.
Vale per tutti. E qui, in questo blog, vale anche per i Board alla guida delle organizzazioni.

Non esiste una regola uguale per tutti, è questo il bello dell’essere un Board member.
Esiste, però, una causa e la capacità di comprendere cosa occorre fare, anche in momenti di emergenza e crisi e anche quando la causa non è connessa all’emergenza, per farla progredire.
Chi aveva già compreso il concetto ha potuto continuare a lavorare, nonostante le difficoltà, la crisi – quella attuale e quella che, inevitabilmente, caratterizzerà i prossimi mesi.
Gli altri hanno subito una battuta d’arresto. Era inevitabile, la pandemia è stata probabilmente solo un acceleratore, in questi casi.

Non occorre disperare, però. Da tutto si può imparare per migliorare – sono da sempre una convintissima sostenitrice dell’utilizzo “terapeutico” dei fallimenti e delle difficoltà: tolgono un sacco di pressione e aiutano a correggere il tiro.

Lo smart working (forse) non è la dimensione ideale, ma possiamo fare in modo che ci si avvicini.

Da sempre utilizzo piattaforme per gli incontri a distanza. In queste settimane ne ho scoperte altre ma, soprattutto, ho preso confidenza con la possibilità che si stia insieme pur da parti opposte di uno schermo.
Ho continuato a portare avanti le mie consulenze e gli incontri; ho supportato una organizzazione straniera con cui collaboro nel processo di selezione del direttore del fundraising facendo i colloqui ai 9 candidati della shortlist; ho tenuto corsi di formazione a classi più o meno numerose, interagendo con i partecipanti, stimolandoli con esercizi e partecipazione attiva alle lezioni.

Ho imparato, insomma, a sentirmi a mio agio davanti allo schermo quasi come se fossi in presenza – sia chiaro: è un succedaneo, l’incontro fisico resta sempre l’opzione preferita, per quel che mi riguarda.

E ho ripreso un punto di cui avevo parlato all’evento sulla Digital Transformation a cui iRaiser mi aveva invitato lo scorso autunno: dovevo parlare di come il processo culturale – dal mio punto di osservazione – determinasse un cambiamento di mentalità prima ancora di arrivare ad individuare gli strumenti che l’avrebbero sostenuto. E, in particolare, il mio orizzonte di riferimento erano i Board, con cui il tema si era posto – e continua a porsi – come riflessione “di sistema”, non episodica.
Preparando il materiale per la mia sessione avevo ripreso un libro letto tempo prima e che mi aveva affascinato – è ancora sul mio comodino e, ogni tanto, lo apro ad una delle pagine contrassegnate con le orecchie (sì, io segno in questo modo i passaggi che mi interessano, per cui i libri che leggo – non importa se di narrativa o testi professionali – hanno sempre l’aria vissuta) perché ci sono passaggi che trovo realmente illuminanti.
Il libro è The Game, di Alessandro Baricco (ed. Einaudi, 2018) e, in particolare, questa frase racconta in modo preciso, a mio parere, quello che queste settimane di quarantena hanno reso evidente: “La rivoluzione digitale è una rivoluzione mentale, più che meramente tecnologica, perché ha cambiato e sta cambiando la nostra postura mentale. (…) crediamo che la rivoluzione mentale sia un effetto della rivoluzione tecnologica, e invece dovremmo capire che è vero il contrario” – prima la rivoluzione mentale, poi quella tecnologica. Che significa che un nuovo tipo di intelligenza ha generato gli strumenti in grado di soddisfarla”.

Quello che sta emergendo con chiarezza è quanto le due dimensioni – online e offline – non siano in contrapposizione e neppure distinte ma, più correttamente, parti integrate di una stessa unicità. Io sono la stessa persona in entrambe le dimensioni, posso decidere come approcciare l’una e l’altra ma non posso considerare alcune aree del mio lavoro fattibili solo in presenza e altre anche a distanza – è ovvio che mi riferisco specificatamente alla mia realtà professionale con le sue caratteristiche peculiari. Ma vale davvero quasi per tutti coloro che non svolgono esclusivamente attività manuali.

Ecco, questo sentirmi a mio agio in entrambe le dimensioni è un aspetto che, abituata a confrontarmi con persone dal vivo – Board, grandi donatori, aziende, colleghi, solo per citarne alcune – e a considerare la dimensione live come l’unica in grado di “sostenere” quella che è buona parte del mio lavoro – i temi dei lasciti, delle donazioni pianificate, delle partnership, dei percorsi di coaching con i Board – mi porto a casa come una delle cose che ho imparato.
È una possibilità, non necessariamente l’unica.

Il tempo è una variabile primaria.

Di punto in bianco ci siamo trovati – tutti, e mi riferisco a tutti coloro che sono stati fortunati e non sono stati toccati direttamente dal virus – con un tempo dilatato, in grado di generare possibilità o, al contrario, ansia o noia.
I primi giorni di lockdown li ricordo come fatti di un tempo non lineare, frastagliato, ovattato. E ricordo la sensazione comune di essere dentro una bolla di irrealtà.
Ho parlato con molte persone, in quella prima settimana, e tutte eravamo prese da qualcosa di simile all’ebbrezza della novità, dal sentirci parte di uno sforzo collettivo, di un corpo unico che stava lottando per restare vivo.
Poi è subentrata una certa assuefazione ad una normalità che tanto normale non era (e non è) e, con questa, anche la necessità di “fare il punto”, riorganizzarsi in qualche modo, dare un orizzonte alla quotidianità, trovare parole e strumenti per andare avanti “con senso”, non “in sospensione”.
Per me è stata la contiguità tra vita personale e vita professionale la chiave per trovarlo, questo senso.

Come spesso mi accade quando ho bisogno di mettere a fuoco qualcosa, ho iniziato a scrivere.
Ad osservare e scrivere. E non ho avuto bisogno di farlo nei ritagli di tempo tra un treno e l’altro o appuntandomi le idee sullo smartphone. Ero seduta alla scrivania e potevo scegliere di dedicare due ore a riordinare i pensieri, a guardare il mio mondo professionale di riferimento attraverso la lente di un ritmo più lento e quindi più profondo.
Ho tenuto a distanza di sicurezza i social – non li demonizzo e sono una utilizzatrice abituale di social, ma ad un certo punto le “urla”, la velocità dei messaggi, la quantità delle informazioni mi ha in parte travolto e in parte stufato.
Mi è sembrato tutto troppo, come dissonante, inappropriato. E in un periodo in cui immaginavo report catastrofici del tempo di utilizzo del mio smartphone questo è, invece, sorprendentemente, calato. Non ne ricavo leggi universali, ma un rapporto più equilibrato con l’istante presente, un utilizzo diverso del tempo e un’attenzione più spostata sul “poco, ma di qualità” è stata fonte di grande ispirazione e beneficio.

Una parola ha rappresentato queste settimane meglio di altre, per quel che mi riguarda: integrazione.

Tra online e offline, come scrivevo; iniziative programmate da riscrivere senza stravolgerle per renderle coerenti con il contesto; interessi personali e tempo da dedicarvi senza sentirmi in difetto e tempo di lavoro che è anche lettura, studio (con calma), riflessione.
Per me si è tradotto in una maggiore creatività, sia con riferimento alla sfera personale che professionale. Sono venuti fuori progetti nuovi e progetti già avviati hanno preso strade diverse, intuite sul momento e man mano sviluppate.

La Fase 2 non cambia quasi nulla, per me e per noi come gruppo di consulenti, dal punto di vista logistico.
Le organizzazioni con cui collaboriamo e i corsi in programma sono tutti fuori regione e all’estero, per cui continueremo a lavorare dai due lati dello schermo.
Mi auguro che vada meglio per tutti, questo sì. E che si riesca ad imprimere bene nella nostra mente quello che è accaduto – la generosità, l’abnegazione oltre ogni immaginazione, il senso di comunità, l’altruismo, così come le falle del sistema emerse qua e là.
Mi auguro e ci auguriamo che tutto questo diventi bagaglio di conoscenza e consapevolezza da non abbandonare troppo presto in nome di un ritorno al “prima”.
E che si possa ripartire, un passo per volta, e ri-pensare, con saggezza maggiore.

p.s. la foto che vedete in questo post è stata scattata a Noordwijk lo scorso 15 ottobre: ero in Olanda per la conferenza IFC e ho fatto una passeggiata lungo le dune, al pomeriggio, immersa in una luce e un paesaggio magici.

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